Le scarpe della festa
La chiacchiera era parte essenziale della festa. Riguardava tutti, prima o poi tutti sarebbero passati per la chiacchiera altrui. Considerazioni sui comportamenti di questo o quello, più spesso quella...
Arrivava sempre il giorno della festa. Una domenica qualsiasi rappresentava già un momento di riposo da vivere appieno. Non un minuto andava sprecato. Si iniziava presto la mattina, la piazza si riempiva man mano fino ad essere completamente occupata da crocicchi di persone che chiacchieravano tra loro di tutto un po. La chiacchiera era parte essenziale della festa.
Riguardava tutti, prima o poi tutti sarebbero passati per la chiacchiera altrui. Considerazioni sui comportamenti di questo o quello, più spesso quella, stabilivano ciò che era giusto o sbagliato. Ci si immedesimava fino a proiettarsi nella vita altrui per poi esprimere, inevitbilmente, un giudizio che aveva come obiettivo quello di assolvere se stessi condannando il malcapitato.
Condannare comportammenti, mettere in guardia dal peccato o semplicemente ammonire evocando punizioni divine, era il compito del prete. Dal pulpito ogni domenica e, soprattutto, nelle domenica di festa grande o durante il periodo natalizio, tuonava contro vizi ed abitudini peccaminose ben sapendo della fragilità dell'uomo. Non credo si facesse illusioni circa i risultati delle prediche ma era il suo lavoro, ed era da fare.
Dal pulpito di pietra scagliava frecce schivate con destrezza dai presenti, la freccia era sempre per qualcun altro. In piazza si cercava il qualcun altro o i più d'uno cui la predica era rivolta. Si cercava tra chiacchiere, allusioni ed ammiccamenti. Crocicchi di quattro cinque persone che si allargavano e si riducevano a seconda dell'importanza della persona di cui si parlava. I più nutriti erano di certo i gruppi della maldicenza. In questi si sparlava a mezza bocca, si identificava e condannava senza appello e per gravissime infrazioni alla morale, un malcapitato o ( più spesso ) malcapitata, reo o rea di aver infranto codici che si possono infrangere, ma mai in pubblico.
Quando questo accade è come svelare le nostre possibili debolezze. Inammissibile peccato.
Questa la piazza domenicale, della Pasqua, della festa del Santo Patrono, la piazza del Natale. La piazza dove indossare il vestito di fustagno nero o marrone, una camicia bianca e delle scarpe nuove. In queste piazze dove si parlava e sparlava, si stabilivano rapporti di lavoro, si commentavano comportamenti, si veniva a conoscenza di fatti si spiava , ci si innamorava, si litigava, in questa piazza piena di occhiate furtive e poca innocenza, l'Innocenza si presentava senza osservare etichette, puerile ed irriguardosa.
A Pasqua, Natale ed il giorno del Santo Patrono, irrompeva spostandosi da un crocicchio all'altro, sostando per qualche minuto, giusto il tempo di ottenere l'attenzione dei presenti che, ormai avvertiti, non mancavano di concederle uno sguardo ed un apprezzamento. L'innocenza era lui, vestito di nuovo e fornito di un nuovo paio di scarpe ( vestito e curato da una sorella amorevole ) si presentava in piazza e con fare noncurante, per quanto gli riuscisse, ciondolava spostandosi da un gruppetto all'altro. Era ritenuto un po il sempliciotto del paese, quello con cui si poteva scherzare e di cui si poteva ridere. Viveva la sua vita tra le strade del paese o in piazza, ignorato nel suo ciondolare tranne che da qualcuno che lo impiegava per piccole commissioni, il pane, la sarta, le sigarette.
Un compenso, spesso simbolico, lo ripagava del suo compito. A lui andava bene così, non chiedeva soldi chiedeva attenzione. Ed era per questo che nei giorni di festa si aggirava tra le persone. Si faceva spazio tra i piccoli gruppi. I cenni d'intesa degli altri che lo lasciavano passare, anticipavano quello che sarebbe accaduto e che tutti conoscevano gia. Un rito che si ripeteva puntuale. Mentre la conversazione proseguiva normalmente, lui dava di gomito al vicino e con fare che simulava una minaccia, declamava ( declamare è il verbo giusto ) la frase che tutti conoscevano ed aspettavano " aho, guarda che zampu i pedi e minni fricu "- Il dialetto è d'obbligo come una traduzione " guarda che ti calpesto i piedi e poco mi importa "- La scena era sempre la stessa, ci si scansava come ad evitare d'essere calpestati e si guardava in basso.
Lo scopo era raggiunto, l'esclamazione di tutti dava il via alla rappresentazione...ha le scarpe nuove, cu salute. E lì iniziava un dire sulla loro bellezza, il loro costo e le loro qualità. Comode, ben fatte, devono durare, ma sai che ti stanno proprio bene, ma quando le hai comprate e ogni sorta di apprezzamento che servisse ad accontentare il bisogno che l'innocenza esprime, esistere.
L'innocenza cammina con scarpe nuove. Le mani di qualcuno le hanno dato forma, fatte apposta e su misura. Un capolavoro da mostrare con fare minaccioso. Guardatemi anche io ho le scarpe nuove, anche io cammino ed esisto. E' questo che mi importa, esistere. Esistere come tutti gli altri, essere riconosciuto anche da chi si prende gioco di te, da chi normalmente ti deride, ti ignora o, peggio, ti offende.
Era il giorno della festa e l'innocenza si aggirava tra i vari gruppi. In ognuno la stessa scena, in ognuno lo stesso finto stupore, gli stessi apprezzamenti, le stesse domande. Nessuno negava questo piccolo conforto, era festa, si deve essere buoni.
C'era l'innocenza e c'erano le scarpe nuove che domani sarebbero state riposte, trattate con cura perché durassero a lungo. Domani, oggi hanno assolto al loro compito. Hanno portato a spasso l'innocenza ed è stata festa grande.
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